Il primo novembre verso le 14 ero in coda in una trafficata strada dei castelli romani ed ero fermo ad un semaforo rosso con altre macchine davanti a me. Avevo finito un pranzo con i miei figli in un ristorante che adoro e avevo festeggiato i sedici anni di uno di loro. Ero altresì contento perché mi stavo recando in stazione dove un treno mi riavrebbe portato a casa da moglie e figlia. Volevo cambiare stazione radio perché mandava una musica troppo pompante e io adoro i ritmi lenti.
In quel momento la mia vita è cambiata. Mi sono trovato improvvisamente sbalzato in avanti e subito dopo una sensazione di respiro cortissimo, non riuscivo a parlare e a respirare, non riuscivo a chiedere aiuto e di seguito un dolore fortissimo al torace e alla schiena, non potevo muovermi e credevo di morire soffocato.
In quel momento il telefono suonava, era mia moglie che a posteriori mi ha confessato che aveva avuto una brutta sensazione. Ho cercato di utilizzare le mie tecniche per provare a far entrare più aria nei polmoni e non morire soffocato. Il tamponante nel frattempo mi chiedeva come stavo e vedendomi con gli occhi aperti ma senza poter parlare ha chiamato l’ambulanza. Gli esercizi hanno permesso all’aria di entrare di più e subito dopo ho provato a muovere le gambe che si muovevano e si facevano sentire. Il dolore non calava in nessun modo. Ho ripreso lucidità ed ho capito che avevo subito un danno grave ma non irreparabile.
Da quel momento ho perso l’autonomia e sono diventato un malato, una persona che ha bisogno di aiuto, di sostegno, di ascolto e forse di comprensione.
Ho trovato un equipaggio di ambulanza gentile che mi ha aiutato e spostato sulla barella spinale con la massima cura possibile, ciò non mi ha risparmiato dolori atroci ma certo mi ha fatto sentire il senso della consolazione e un carabiniere umano che ha cercato di mostrarsi empatico pur mantenendo il ruolo che gli appartiene. Poi sono stato portato in sirena in ambulanza nelle famose strade romane in cui pezzi di asfalto lisci ogni tanto fanno capolino tra le buche, le corse e le buche mi facevano sobbalzare ed urlare, ho perfino pensato che fosse possibile in quei quindici minuti perdere l’uso delle gambe.
Sono arrivato in un ospedale di provincia dove dopo il triage sono stato messo sulla mia spinale a sua volta sulla barella in un angolo di un affollato pronto soccorso. Il dolore era insopportabile e per almeno un’ora e forse di più nessuno si è avvicinato.
In quei momenti si è spaventati, soli (perché non si fa entrare i familiari), con mille bisogni che vogliono essere ascoltati e l’impossibilità di muoversi. Ci si sente fragili, fragilissimi e anche solo uno sguardo o una parola sarebbero preziose e invece i vari sanitari passavano accanto alla mia barella guardando avanti come se io fossi trasparente, eppure sono un tizio di centoottantacinque centimetri per quasi cento chili eppure in quel momento avevo le dimensioni e la consistenza di una medusa.
Cosa gli costava fermarsi, tre minuti cosa avrebbe cambiato nel loro turno e non in quello di tutti ma almeno di uno. E noi? Quante volte facciamo la stessa cosa nella nostra vita? Io non sono mai riuscito ad essere così, ho dedicato la mia vita all’ascolto e forse per questo ho sofferto tanto.
Ad un certo punto un’infermiera mi ha preso il braccio, mi ha detto:”prendo una vena e faccio un prelievo” e dopo averlo fatto è andata via. Che belle parole! Ho sentito una voce umana, ma come sarebbe stato bello se mi avesse chiesto come stavo e se avessi avuto bisogno di qualcosa?
Mi sembravo un mendicante per cui cinquanta centesimi potevano valere tutto mentre per noi non sono niente, ma forse chiedevo troppo.
Sono riuscito rischiando la schiena a girarmi urlando e sono riuscito ad arrivare al telefono poggiato lì da qualcuno quasi fuori dalla portata della mia mano soprattutto per uno che aveva l’ordine di non muoversi neanche di un millimetro prima degli accertamenti.
Ho rischiato ma avevo bisogno di sentire una voce e di rassicurare chi era a distanza e probabilmente disperata e le gambe hanno continuato a muoversi.
Nasce un nuovo dramma: ho cinque ore di batteria…nel medioevo questo non sarebbe esistito come problema, non ci sono prese, non ho caricabatterie, vedremo.
Poi TAC, poi un medico finalmente, poi diagnosi e poi le faremo sapere dopo consulto cosa fare se operare o no.
Dalle 18 in poi è iniziata una nuova tragedia, un uomo grande e grosso invisibile, senza un campanello che chiama chiunque gli passi a fianco con gentilezza:”scusi per favore avrei bisogno”, che chiede un pappagallo senza ascolto. Certo capisco che in pronto soccorso un bel pappagallo verde che ripete le tue parole è una richiesta inusuale, ma forse, dico forse se avessi chiesto questo avrei avuto quantomeno le stesse possibilità di ascolto rispetto al banale contenitore per le urine che scappavano impetuose come l’acqua del Vajont pochi secondi prima della frana del monte Tok.
Ritengo che non sia dignitoso implorare il bisogno urinario e forse molti pensavano che le meduse non urinano (sinceramente non lo so) ma in quel momento ho capito quanto sia imponente il bisogno di cura in chi stia male e che spesso l’ascolto sia molto più semplice di quello che sembri.
Io credo che il mio lavoro di psicoterapeuta esista perché nel nostro mondo si ascolta così poco, anche in famiglia e si cerchi sempre meno di comprendere i bisogno sia nostri che degli altri. In quel momento ho capito che siamo tanto lontani dalla pace.
Come sono riuscito a non urinarmi addosso? Ho cominciato ad urlare, minacciando di farmela addosso e poi filmarmi e mandare il video in giro in cui in quell’ospedale l’assistenza non permette ad un individuo sofferente neanche di urinare! Dopo le urla è arrivato il pappagallo accompagnato da una faccia scocciata. Ossia la soluzione è arrivata con la violenza. Se non c’è ascolto la conseguenza è la violenza, e se vi guardate intorno non potete negare che sia così e che quindi di reazione se ci fosse ascolto forse ci sarebbe molta meno violenza e tutti noi abbiamo bisogno di pace, di pace, di pace